“Una cantina, è la memoria della casa. Non è solamente piena di cose di cui non ci si serve più, ma è anche piena di ricordi che non si vuole dimenticare.” Daniel Pennac Una chiesa sconsacrata, una casa e un vicolo cieco.
All’incrocio tra via Roma e vico San Lorenzo, sorge in tutto il suo rigore e la sua imponenza, Casa Salinardi. Un edificio severo, senza fronzoli, l’unico ornamento, il battente in ottone sul grande portone. Ai lati un anello usato per legare gli asini e i muli, segno di un’identità contadina insita nella storia di Ruoti.
Siamo nel 1828 quando Domenico Salinardi, acquista la chiesa sconsacrata di San Lorenzo che da anche il nome al vicolo, e vi costruisce sopra tre stanze e una cucina, mentre al di sotto rimane un grande spazio vuoto dove si riconosce ancora l’altare grazie al segno lasciato dalle colonnine rimasto intatto e utilizzato come deposito.
Domenico scava, scava per ricavare una ƴrutt ͤ (cantina) di tufo, una pratica molto diffusa all’epoca infatti tutte le famiglie ne avevano una, e serviva per conservare vino e alimenti.
La ƴrutt ͤ è stata il perno di una visione che ha portato alla costruzione di casa Salinardi, così come la conosciamo oggi. Visione di una dimora che Domenico aveva ben in mente quando acquista la chiesa, e che dopo tre generazioni arriva al suo compimento.
L’esigenza primaria della famiglia era, infatti, quella di avere un deposito grande a sufficienza per riporre il raccolto e tutti i prodotti derivanti dalle diverse proprietà terriere, all’epoca non esistevano di certo i refrigeratori e la cantina assolveva il compito della conservazione.
Domenico muore, ma anche il figlio non vive a lungo, così ad occuparsi della casa ci sono la moglie e Gerardo il fratello sacerdote di Domenico, che continuano i lavori e acquistano la casa limitrofa costituita da due vani. Sopra di queste vi costruiscono tre stanze e uniscono tutto il fabbricato spostando nel 1846 il portone d’ingresso dove si trova attualmente. Viene inglobato anche un vicolo cieco che separava la casa dalla cantina a cui si continuava a lavorare, allargandola quanto più possibile.
Con l’unione della chiesa sconsacrata alla casa e al vicolo cieco, il fabbricato acquista una pianta irregolare, unica nel suo genere e oggetto di studio alla facoltà d’ingegneria della Basilicata. Sempre Gerardo, fa costruire due cappelle al cimitero: una per la famiglia e l’altra per dare sepoltura a tutti i sacerdoti che avrebbero operato a Ruoti, lui stesso sarà tumulato qui, una possibilità valida ancora oggi ma che non viene esercitata dai presbiteri che si sono susseguiti, da diverso tempo.
Nel 1874 la casa è ultimata da Gerardo, il bisnonno di Ernesto che oggi si occupa di casa Salinardi, ci sono voluti sessant’anni e tre generazioni. Gerardo lavora anche lui alla cantina e costruisce l’intero piano superiore, la famiglia si è allargata e ognuno ha bisogno del suo spazio.
Nel 1918 a causa dell’uso delle candele e dei camini accesi anche di notte, scoppia un incendio che distrugge il primo piano, bruciando anche tutti gli arredi, si salveranno soltanto alcune sedie. I solai erano di legno come si usavano una volta e rimarranno tali fino al 1951, quando a causa di un secondo principio d’incendio, Gerardo padre di Ernesto, Dottore in Scienze Agrarie- Agronomo e autore del libro “L’antica terra di Ruoti”, decide di rimuovere tutti i solai in legno e di rifarli. In quest’occasione si decide anche di non rinnovare il tetto ma di costruire una terrazza con tre stanze al posto del sottotetto.
Si stenta a credere che un edificio così imponente e affascinante sia stato concepito come un supporto alla cantina, il vero fulcro della casa e della vita della famiglia Salinardi. Ma questo è, infatti furono scavate tre cantine ed erano organizzate così: la prima adibita a granaio, la seconda riservata al vino e la terza ai formaggi. Questa impostazione dura fino al 1955, quando Gerardo Salinardi è chiamato per occuparsi della riforma agraria, e da allora, la principale attività di famiglia va piano piano scomparendo. Palazzo Salinardi è una struttura solida, fatta di pietre e volte che ha retto il terremoto del 1980, rigorosa, con pochi balconi stretti, che rispondevano alle esigenze di un’epoca. Una casa senza corridoi, perché considerati spazio sprecato, ma costruita con un criterio diverso: una stanza centrale, di rappresentanza entro cui si affacciavano le porte delle altre camere. Di queste, solo alcune sono comunicanti per dare unità ai piccoli nuclei familiari che abitavano il palazzo.
A questa casa si lega la storia di Ernesto, il generale. Ernesto ultimo dei cinque figli maschi e di sette sorelle, sicuramente non gli sarebbe spettato l’eredità di casa Salinardi, secondo l’antica usanza di tenere tutte le proprietà unite, il patrimonio di famiglia era tramandato al primo figlio maschio.
Ma il destino ha fatto mille giri per arrivare a lui. Secondo la mentalità di allora, i figli non potevano restare a casa e gravare economicamente sulla famiglia, così il primogenito Francesco aveva studiato come avvocato ed era amministratore del principe Ruffo di Ruoti, il secondo Domenico amministrava le terre di famiglia, il terzo Giuseppe era medico come suo padre Gerardo, mentre Pasquale ed Ernesto militari.
Ernesto bersagliere durante la prima guerra mondiale, a cui è dedicata la sezione ex combattenti di Ruoti, aveva girato l’Italia e stava pensando di stabilirsi a Salerno, quando nel giro di pochissimo tempo, i suoi fratelli e sorelle vennero a mancare uno dopo l’altro. All’improvviso Palazzo Salinardi si svuotò, la dimora che poteva accogliere interi nuclei famigliari non aveva più nessun inquilino. Ernesto quindi rientrò nel suo paese natio e portò con sé i rigori e la disciplina di una vita passata da militare.
«Nonno Ernesto aveva un grande rispetto per la casa. Diceva sempre di non fare baccano, anche quando venivano gli amici a casa, non dovevamo eccedere. Ricordo che al tramonto dovevamo rincasare, e lui chiudeva a chiave il portone, segno che la giornata era finita. Ma noi uscivamo dalla finestra! Aveva conservato il ritmo della caserma: tutte le mattine usciva di casa molto presto, alle 12 pranzava e cenava alle 19. Mangiava quasi sempre da solo perché i suoi orari non erano compatibili con i nostri, tra la scuola e il lavoro di mio padre. Ma per lui non era un problema anzi! Ricordo che durante le festività, le uniche occasioni in cui si mangiava tutti insieme, sbuffava perché era fuori orario!».
Oggi, a gestire Palazzo Salinardi è il nipote di Ernesto, di cui porta il nome. «Mantenere una casa del genere è complicato, il mio sforzo è quello di conservarne l’autenticità, difatti ho riportato alcuni ambienti alla loro funzione originaria, cercando di rispettare la tradizione storica della famiglia. C’è sempre tanto da fare, ma sono consapevole del patrimonio e del valore di cui faccio parte anch’io».