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giovedì, 21 Novembre, 2024

La Lucania magica e religiosa di Ernesto De Martino: il folklore come riscatto sociale

«Ci sia consentito di ringraziare (…) tutte le contadine lucane che di buon grado ci fornirono le informazioni richieste, piegandosi alla ingrata fatica di rinnovare davanti ad altri, nella forma del rito, il cordoglio per i loro morti (…). Per queste povere donne che vivono negli squallidi villaggi disseminati fra il Bradano e il Sinni, non sapremmo disgiungere il nostro ringraziamento dal caloroso augurio che, se non esse, almeno le loro figlie o le loro nipoti perdano il nefasto privilegio di essere ancora in qualche cosa un documento per gli storici della vita religiosa del mondo antico, e si elevino a quella più alta disciplina del pianto che forma parte non del tutto irrilevante della emancipazione economica, sociale, politica e culturale del nostro Mezzogiorno».
E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Boringhieri, Torino, 1958

Basilicata, anni cinquanta del Novecento. Sullo sfondo l’Italia del miracolo economico, ma nella terra lucana sopravvive un folklore magico – religioso appartenente alla cultura contadina. Affascinato dagli scritti di Carlo Levi (Cristo si è fermato ad Eboli) e di Antonio Gramsci (Quaderni del carcere), stimolato dall’incontro con Rocco Scotellaro e politicamente interessato alla questione meridionale (militava nei partiti di Sinistra), Ernesto De Martino etnografo e fondatore della moderna antropologia italiana, sceglie la Basilicata per mettere in atto il suo innovativo approccio alla ricerca: il cosiddetto «etnocentrismo critico», ossia l’impegno, da parte dell’etnologo, di mettere in discussione le proprie categorie analitiche adoperando una forma di autocritica del proprio punto d’osservazione.
L’obiettivo principale di De Martino era infatti, quello di riformare gli studi etnologici, scopo che raggiunge attraverso lo studio dei caratteri magici- religiosi del folklore contadino. Le ricerche sul campo che De Martino ha realizzato in Basilicata in due diverse spedizioni (1952 e 1956) rappresentano le fondamenta di tutta la produzione successiva dell’etnologia naturalistica. È in questi luoghi dimenticati, desolati e isolati che De Martino s’immerge: un mondo fuori dal mondo intriso di magia. Le sue spedizioni rappresentano un caso di etnografia di gruppo, un pionieristico lavoro d’équipe svolto assieme allo psicoanalista Emilio Servadio, al medico igienista Mario Pitzurra, al sociologo Adam Abruzzi, Diego Carpitella, l’etnomusicologo del gruppo, Romano Calisi, anche lui antropologo, e i fotografi Franco Pinna, prima e Ando Gilardi in seguito.
L’anima che può andare perduta, il morto che può contagiare, il mago che può “affatturare”, la forza magica maligna che incombe, i rituali d’imitazione, le reazioni a momenti critici dell’esistenza sono esemplificazioni della dinamica presente nel dramma magico: la perdita della presenza ed il riscatto.
Secondo De Martino, infatti, questi istituti magici sono espedienti attuati per garantire l’Esserci, per superare quella che egli definisce la «crisi della presenza». È fondamentale ricordare il momento storico che tutto il Mezzogiorno d’Italia stava vivendo nel secondo dopoguerra.
La vita delle “classi subalterne” è una vita di stenti e di fatiche quotidiane: sottoccupazione, scarsa fertilità dei terreni, frammentazione della proprietà. Un miracolo economico che per i contadini del Sud non è neppure un miraggio. In tale contesto di disperata difficoltà, l’essere fascinato,affatturato, è la sublimazione di quello stato di miseria fisica, morale e sociale.
In determinate condizioni di vita, quando nel quotidiano il negativo s’impossessa del naturale fluire dell’esistenza, l’individuo e la comunità tutta, in assenza di strumenti pratici di risoluzione dei problemi (da una malattia alle pene d’amore), si avvalgono di un ordine metastorico.
Quest’ultimo si può definire come un ordine superiore, mitico, fuori dal tempo e dalla storia capace di arrestare, assorbire la proliferazione del negativo. In quest’ottica, nel momento in cui sopraggiunge la «crisi di presenza», il rituale magico – religioso aiuta a mantenere un orizzonte stabile, ad affrontare il negativo e garantisce, per l’appunto, la «presenza».  L’analisi delle pratiche magiche è importante leggerle quindi, in una dimensione storica. E’ questo uno degli elementi fondanti dell’etnografia demartiniana: lo storicismo, spesso punto di contrasto con gli altri intellettuali contemporanei; una pratica magica è interpretabile, ed efficace, solo se è storicizzata, inserita in un ben definito ambiente e in una ben definita epoca, nonché condivisa dalla comunità che unanimemente a tale ordine fa riferimento. È in questa direzione che si sviluppa il concetto di «folklore progressivo» definito come «proposta consapevole del popolo contro la propria condizione socialmente subalterna, o che commenta, esprime in termini culturali, le lotte per emanciparsene». Il folklore dunque, non è soltanto l’insieme degli usi e costumi di un popolo ma: «Si tratta (…) di analizzare gli aspetti della vita culturale del mondo contadino, vedere come questi aspetti si legano alle condizioni materiali di esistenza, scoprire come questa miseria sia controllata e diretta da determinati organismi culturali (p.es. la Chiesa) individuare e definire i momenti di sblocco dalla tradizione (p.es. alcuni aspetti dei movimenti evangelici nel Mezzogiorno), stabilire in che misura le forme culturali egemoniche della società meridionale hanno plasmato il costume contadino e in che misura hanno segnato il passo (e perché lo hanno segnato) di fronte alla superstizione più cruda, e, ancora, in che misura sono venute a compromesso con queste forme più arretrate di vita culturale. E’ per servire a questo tipo di ricerche più propriamente storiche che occorre raccogliere il materiale sulla miseria culturale».
Una miseria culturale che oggi ha portato Matera a essere capitale europea della cultura del 2019 e, la Basilicata centro internazionale di dialettologia. Insomma, il nostro “Open future” sembra proprio basarsi su quella miseria, ma, a sessant’anni da quelle ricerche, viene da chiedersi cosa sopravvive e quali echi risuonano, oggi, di quelle «costumanze e superstizioni» di lontana memoria? E soprattutto quanta consapevolezza c’è, in chi mette in scena le memorie di un passato neanche così troppo lontano?

«Ci sia consentito di ringraziare (…) tutte le contadine lucane che di buon grado ci fornirono le informazioni richieste, piegandosi alla ingrata fatica di rinnovare davanti ad altri, nella forma del rito, il cordoglio per i loro morti (…). Per queste povere donne che vivono negli squallidi villaggi disseminati fra il Bradano e il Sinni, non sapremmo disgiungere il nostro ringraziamento dal caloroso augurio che, se non esse, almeno le loro figlie o le loro nipoti perdano il nefasto privilegio di essere ancora in qualche cosa un documento per gli storici della vita religiosa del mondo antico, e si elevino a quella più alta disciplina del pianto che forma parte non del tutto irrilevante della emancipazione economica, sociale, politica e culturale del nostro Mezzogiorno».
E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Boringhieri, Torino, 1958

Basilicata, anni cinquanta del Novecento. Sullo sfondo l’Italia del miracolo economico, ma nella terra lucana sopravvive un folklore magico – religioso appartenente alla cultura contadina. Affascinato dagli scritti di Carlo Levi (Cristo si è fermato ad Eboli) e di Antonio Gramsci (Quaderni del carcere), stimolato dall’incontro con Rocco Scotellaro e politicamente interessato alla questione meridionale (militava nei partiti di Sinistra), Ernesto De Martino etnografo e fondatore della moderna antropologia italiana, sceglie la Basilicata per mettere in atto il suo innovativo approccio alla ricerca: il cosiddetto «etnocentrismo critico», ossia l’impegno, da parte dell’etnologo, di mettere in discussione le proprie categorie analitiche adoperando una forma di autocritica del proprio punto d’osservazione.
L’obiettivo principale di De Martino era infatti, quello di riformare gli studi etnologici, scopo che raggiunge attraverso lo studio dei caratteri magici- religiosi del folklore contadino. Le ricerche sul campo che De Martino ha realizzato in Basilicata in due diverse spedizioni (1952 e 1956) rappresentano le fondamenta di tutta la produzione successiva dell’etnologia naturalistica. È in questi luoghi dimenticati, desolati e isolati che De Martino s’immerge: un mondo fuori dal mondo intriso di magia. Le sue spedizioni rappresentano un caso di etnografia di gruppo, un pionieristico lavoro d’équipe svolto assieme allo psicoanalista Emilio Servadio, al medico igienista Mario Pitzurra, al sociologo Adam Abruzzi, Diego Carpitella, l’etnomusicologo del gruppo, Romano Calisi, anche lui antropologo, e i fotografi Franco Pinna, prima e Ando Gilardi in seguito.
L’anima che può andare perduta, il morto che può contagiare, il mago che può “affatturare”, la forza magica maligna che incombe, i rituali d’imitazione, le reazioni a momenti critici dell’esistenza sono esemplificazioni della dinamica presente nel dramma magico: la perdita della presenza ed il riscatto.
Secondo De Martino, infatti, questi istituti magici sono espedienti attuati per garantire l’Esserci, per superare quella che egli definisce la «crisi della presenza». È fondamentale ricordare il momento storico che tutto il Mezzogiorno d’Italia stava vivendo nel secondo dopoguerra.
La vita delle “classi subalterne” è una vita di stenti e di fatiche quotidiane: sottoccupazione, scarsa fertilità dei terreni, frammentazione della proprietà. Un miracolo economico che per i contadini del Sud non è neppure un miraggio. In tale contesto di disperata difficoltà, l’essere fascinato,affatturato, è la sublimazione di quello stato di miseria fisica, morale e sociale.
In determinate condizioni di vita, quando nel quotidiano il negativo s’impossessa del naturale fluire dell’esistenza, l’individuo e la comunità tutta, in assenza di strumenti pratici di risoluzione dei problemi (da una malattia alle pene d’amore), si avvalgono di un ordine metastorico.
Quest’ultimo si può definire come un ordine superiore, mitico, fuori dal tempo e dalla storia capace di arrestare, assorbire la proliferazione del negativo. In quest’ottica, nel momento in cui sopraggiunge la «crisi di presenza», il rituale magico – religioso aiuta a mantenere un orizzonte stabile, ad affrontare il negativo e garantisce, per l’appunto, la «presenza».  L’analisi delle pratiche magiche è importante leggerle quindi, in una dimensione storica. E’ questo uno degli elementi fondanti dell’etnografia demartiniana: lo storicismo, spesso punto di contrasto con gli altri intellettuali contemporanei; una pratica magica è interpretabile, ed efficace, solo se è storicizzata, inserita in un ben definito ambiente e in una ben definita epoca, nonché condivisa dalla comunità che unanimemente a tale ordine fa riferimento. È in questa direzione che si sviluppa il concetto di «folklore progressivo» definito come «proposta consapevole del popolo contro la propria condizione socialmente subalterna, o che commenta, esprime in termini culturali, le lotte per emanciparsene». Il folklore dunque, non è soltanto l’insieme degli usi e costumi di un popolo ma: «Si tratta (…) di analizzare gli aspetti della vita culturale del mondo contadino, vedere come questi aspetti si legano alle condizioni materiali di esistenza, scoprire come questa miseria sia controllata e diretta da determinati organismi culturali (p.es. la Chiesa) individuare e definire i momenti di sblocco dalla tradizione (p.es. alcuni aspetti dei movimenti evangelici nel Mezzogiorno), stabilire in che misura le forme culturali egemoniche della società meridionale hanno plasmato il costume contadino e in che misura hanno segnato il passo (e perché lo hanno segnato) di fronte alla superstizione più cruda, e, ancora, in che misura sono venute a compromesso con queste forme più arretrate di vita culturale. E’ per servire a questo tipo di ricerche più propriamente storiche che occorre raccogliere il materiale sulla miseria culturale».
Una miseria culturale che oggi ha portato Matera a essere capitale europea della cultura del 2019 e, la Basilicata centro internazionale di dialettologia. Insomma, il nostro “Open future” sembra proprio basarsi su quella miseria, ma, a sessant’anni da quelle ricerche, viene da chiedersi cosa sopravvive e quali echi risuonano, oggi, di quelle «costumanze e superstizioni» di lontana memoria? E soprattutto quanta consapevolezza c’è, in chi mette in scena le memorie di un passato neanche così troppo lontano?

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